SULLA QUESTIONE DEL “PARTITO DEI CATTOLICI” di Mario Adinolfi
Su Repubblica il vescovo Simioni riapre per l’ennesima volta la questione del “partito dei cattolici” raccontando a Paolo Rodari di una sua iniziativa, denominata Insieme, da portare “già alle prossime elezioni europee” all’attenzione degli elettori con una sorta di benedizione dei cardinali Becciu e Parolin, oltre che con una qualche benevolenza diffusa della Cei. Sono stato invitato anche io alle riunioni di Insieme, nelle ultime ore con una certa insistenza.
Ho risposto con queste parole a chi mi chiedeva perché il Popolo della Famiglia non parteciperà: “Perché non avete forze. Siete dei singoli, animati da buona volontà, ma privi di qualsiasi forza organizzativa concreta e capillare sui territori. Volete però utilizzare la nostra forza e dire ai vostri interlocutori che al tavolo c’eravamo anche noi. Io ho molti e noti difetti, con un solo pregio: parlo chiaro e scrivo affinché le parole permangano. Il Popolo della Famiglia va alle europee con il suo simbolo. Una volta che si chiarirà che il Popolo della Famiglia è, per oggettivi meriti conquistati sul campo, il simbolo della casa comune mi siederò, io e solo io perché non esistono intermediari, a tavoli per trattare i passaggi successivi. Il vostro incontro del 13 dicembre per me deve sciogliere solo questo nodo. Se volete fare un’altra lista, auguri. Sapete benissimo che non ci riuscirete mai, come non ci siete riusciti il 4 marzo scorso. Incontratevi, discutete e decidete: con il PdF per un percorso unitario che ci porterà lontano o senza il PdF per un percorso che organizzativamente sul territorio non siete in grado di sostenere, neanche di avviare. La vostra cabina di regia decida che direzione prendere davanti a questo bivio”. L’interlocutore ha apprezzato la franchezza e ammesso che da vent’anni si fanno gli stessi discorsi sul “partito dei cattolici” ma non si arriva mai a nulla, per difetti sul piano organizzativo che solo il Popolo della Famiglia ha dimostrato di aver superato.
Negli ultimi sette giorni il nostro popolo ha tenuto incontri organizzativi con tavoli di raccolta firme dalla Val d’Aosta alla Calabria, con Nicola Di Matteo abbiamo programmato quattro iniziative in Sicilia nei prossimi venti giorni, sono stato personalmente presente al nord (Como), al centro (Roma, primo tavolo per il Reddito di Maternità, 50 firme raccolte in un’ora) e al Sud (Castrovillari). Abbiamo presentato due nostri candidati alla presidenza di Regione, Valter Boero in Piemonte e Fabrizio Di Stefano in Abruzzo. Abbiamo aperto gazebo al gelo di questo inizio dicembre a Bergamo e a Faenza, a Pianezza e a Giulianova, a Modena e a Venezia, a Padova e a Cervia, a Teramo e a Potenza, a Treviso e a Campobasso. Ci si incontra a Terni e a Bari, si programmano iniziative con il vescovo a Lecce (26 gennaio, non mancate). Ci sono migliaia di militanti mobilitati, duecentocinquanta dirigenti del coordinamento nazionale che organizzano, avanguardia dei duecentoventimila che ci hanno votato. Il Popolo della Famiglia è questo, un vero popolo, che incontrate per le strade. Io stesso ormai quando salgo su un bus o su un treno vengo additato come “quello della famiglia”. Siamo parte di un immaginario collettivo ormai, che non riguarda solo i nostri simpatizzanti ma anche gli antipatizzanti, che è dentro una dimensione che possiamo tranquillamente definire “pop”. Siamo popolari. In tutti i sensi, direi.
Il tema centrale posto dai vescovi e in particolare dal cardinale Bassetti, presidente della Cei, con un grande acume è il richiamo a Toniolo e a Sturzo, alle radici stesse del cattolicesimo politico. Noi stessi come PdF abbiamo voluto far ripartire il PdF nella nuova stagione che ci caratterizza dopo le elezioni politiche del 4 marzo nel bagno rigeneratore dell’incontro con le radici, andando per due giorni a Camaldoli a discutere il Codice che ha dato il via ad una stagione di protagonismo culturale, politico e di governo dei cattolici nel nostro Paese. Dopo quei giorni di settembre abbiamo accolto come un segno importante la presenza in piazza San Pietro il 17 ottobre scorso al fianco di Papa Francesco e il suo pubblico saluto, le nostre bandiere sul sagrato, il colloquio che ho avuto il cui cuore è stato l’invito a continuare la nostra azione. Ovviamente se una delegazione di un partito politico di ispirazione cristiana per la prima volta dopo sessant’anni veniva portata all’incontro con il Papa con le sue insegne e simboli ben esposti, questa cosa non avviene per caso. C’è un interesse della Chiesa per i cattolici impegnati nella politica italiana in questa fase. Perché? La risposta è piuttosto semplice. Perché l’interlocuzione della fase precedente, quella con l’area cattolica del Pd, si è rivelata fallimentare. Il “galantinismo” ha prodotto frutti pessimi e pessime leggi (Cirinnà e biotestamento in primis) portando il Pd al crollo del 4 marzo e i cattolici all’irrilevanza. Allo stesso tempo oggi è impossibile per la Chiesa aderire al progetto leghista di governo (peggio che mai a quello pentastellato) per divergenze oggettive racchiuse brillantemente nella sintesi offerta alla viglia delle elezioni politiche dal segretario nazionale del PdF, Gianfranco Amato: votare Lega è immorale, la Lega è un partito a-va-lo-ria-le. Amato aveva ragione, io non sarei stato capace di essere altrettanto tranchant, la sua opinione è quella della stragrande maggioranza dei vertici ecclesiali italiani.
Va detto, per amore di verità, che dopo le elezioni e la crescita prepotente di Salvini il buon Amato ha cambiato idea, con lui magari anche qualche vescovo. Ma il grosso del mondo ecclesiale italiano resta estremamente distante dall’opzione leghista. Da settant’anni la Repubblica italiana si configura per una governance immutata nonostante i diversi sistemi elettorali che si sono succeduti nel tempo. Il modello è quello del “governo di coalizione”. In settant’anni, tranne rare e transitorie eccezioni, anche i partiti fortissimi non hanno mai governato da soli ma alleati a altri partiti più piccoli. Lo scenario del prossimo futuro non sarà diverso. I vescovi colgono la necessità di avere dunque una forza politica dotata di cultura di governo capace di mitigare gli eccessi del salvinismo trionfante. Dopo due decenni di tentativi tutti andati a vuoto, la Chiesa torna a pensare alla necessità concreta di un soggetto politico basato sul modello sturziano.
Servono i popolari, rieccoci al punto. Ma il solo richiamo al passato sturziano oggi non basta più, oggi dobbiamo saper intercettare un’esigenza radicale di rinnovamento che ha a che fare anche con un piano squisitamente morale oltre che politico. Servono politici disinteressati al potere ma capaci di organizzarsi per conquistarlo, non spaventarsi se questo sembra un ossimoro. Bisogna rassegnarsi a un dato che dall’articolo di Paolo Rodari emerge chiaramente: buona parte dei cattolici continuerà a votare Pd o M5S (i due partiti più votati dai praticanti il 4 marzo) e l’unica alternativa possibile a molti sembrerà solo il voto a Salvini. Questo quadro deve essere assolutamente chiaro a chi vuole fare le fatica di proporre non un improponibile “partito dei cattolici”, ma un partito di ispirazione cristiana che sappia caratterizzarsi per risposte concrete e non demagogiche ai problemi estremamente complessi della contemporaneità. Questa sfida si può raccogliere scegliendo di essere araldi di una sorta di “fascino della complessità” da opporre a chi crede di poter governare quei problemi complessi a colpi di tweet, cioè di slogan, di ricette troppo semplici per essere ragionevoli. In questo c’è la distanza tra popolari e populisti, misurabile proprio in termini di approccio valoriale ai problemi, dove i principi essenziali e quindi non negoziabili fanno da guida alla scrittura delle soluzioni concretamente praticabili.
La nostra proposta di reddito di maternità è esattamente, in questo senso, una proposta popolare da contrapporre alla ricetta populista del reddito di cittadinanza. La differenza è partire dall’individuare il problema (l’Italia che non cresce), scandagliando più in profondità le cause del problema. Così per noi la principale tragedia nazionale e causa della stagnazione anche economica è la denatalità e la soluzione al problema è l’investimento massiccio ma compatibile con i conti pubblici sulla famiglia e sulla figura della donna madre. Questa è una soluzione popolare. La soluzione populista è dare 780 euro a sei milioni e mezzo di persone ad aprile per comprarne il consenso alle elezioni di maggio.
Per realizzare questa proposta occorrono anni di lavoro alle spalle e sono anni che il Popolo della Famiglia ha già affrontato, radicandosi in ogni angolo del Paese. Se il “partito dei cattolici” che Paolo Rodari va cercando anche per conto terzi è questo partito popolare e non populista capace concretamente di esserci e di generare risposte nuove per i problemi nuovi della contemporaneità, allora tale partito c’è già e si chiama Popolo della Famiglia, dotato anche di quei contorni “pop” di riconoscibilità ormai di massa che gli permettono di crescere ogni mese di più, anche grazie al rapporto quotidiano con il territorio. Dei sette milioni di italiani che vanno a messa tutte le domeniche la stragrande maggioranza continuerà a votare Pd, M5S e Lega anche il 26 maggio 2019 alle europee. Ma è possibile far crescere i 220mila che già hanno votato Popolo della Famiglia il 4 marzo e che dovranno semplicemente essere novecentomila alle prossime elezioni politiche, che si terranno da qui a un anno. Con poco più di novecentomila voti il PdF avrebbe eletto decine di parlamentari e il popolarismo di ispirazione cristiana avrebbe avuto cittadinanza in Camera e Senato. Chi è contento delle opzioni politiche attualmente in campo continui pure a sostenere da cattolico Pd, M5S o Lega. Non so come possa farlo, ma chi sono io per giudicare?
Chi vuole costruire l’alternativa popolare e cristianamente ispirata rafforzi l’unico soggetto concretamente, capillarmente e organizzativamente in campo: il Popolo della Famiglia è un soggetto aperto, che ha la tensione unitaria nel suo Dna, perché raccoglie persone provenienti da esperienze molto differenti se non addirittura opposte. Le tempistiche e altre ragioni oggettive rendono impraticabile ogni altra opzione, costruire un movimento politico dal nulla è faticosissimo e nessuno quanto noi può testimoniarlo. Oggi l’alternativa è o i partiti maggiori già in campo o il Popolo della Famiglia. Legittime tutte le scelte, ma le scelte sono queste, tra meno di sei mesi si vota, tra quattro mesi e mezzo (il 9 aprile) vanno consegnate centocinquantamila firme per potersi presentare (trentamila per ognuna delle cinque macrocircoscrizioni, minimo tremila per regione, Val d’Aosta e Molise inclusi), non c’è tempo per inventarsi null’altro. Il mondo cattolico, non irrilevante in termini di numeri, si è frastagliato in una miriade di sigle e siglette associative che raramente superano qualche centinaio di attivisti. Per questo, consci della debolezza strutturale, i capi delle associazioni si rifugiano volentieri nel sostegno ai partiti già strutturati, sperando in una cooptazione. Questo è esattamente il meccanismo che conduce all’irrilevanza, perché il potere è detenuto dal soggetto cooptante, mai dal cooptato o aspirante tale.
Per uscire dall’irrilevanza occorre costruire un popolo composto da centinaia di migliaia di persone politicamente orientate, disposte a essere minoranza, ma minoranza incidente e determinante. Il Popolo della Famiglia merita di essere aiutato ad andare oltre i confini dei duecentoventimila italiani già convinti il 4 marzo dalle nostre ragioni, ha conquistato sul campo il merito di rappresentare il neopopolarismo italiano, è aperto a compiere questa battaglia con tutti gli italiani, cattolici e non, a cui l’attuale quadro politico non piace e non basta, convinti che la ragionevolezza dei principi essenziali e per questo non negoziabili debba avere cittadinanza in questo tempo governato da politici irragionevoli.