La sinistra a chiacchiere di Boldrini di Mario Adinolfi
“Lilia è una collaboratrice domestica moldava e qualche giorno fa si è dovuta rivolgere a un patronato della Capitale perché quella che è stata la sua datrice di lavoro per otto anni, a dieci mesi dalla rottura del contratto, non le pagava la liquidazione”. Il giornale è il Fatto, la firma è di Selvaggia Lucarelli. E stavolta vale la pena di acquistare quel quotidiano e leggere questa articolista. Perché la storia che racconta è una foto della profonda ipocrisia della sinistra italiana: “Fin qui non ci sarebbe nulla di così inedito se quella datrice di lavoro non avesse un nome che pesa, quel nome è Laura Boldrini”.
Il racconto della povera Lilia è abbastanza impressionante: la Boldrini l’ha licenziata dopo aver provato a ridurle lo stipendio e l’orario di lavoro. Ma la colf moldava non vive al centro di Roma, doveva muoversi ogni giorno da Nettuno e per la metà delle ore il bilancio finiva in perdita. Dopo averla licenziata la Boldrini non si è fatta più sentire e non le ha pagato la liquidazione. Una cifra significativa? No, appena tremila euro. Ma una cosa è essere solidali a chiacchiere con le donne e gli immigrati extracomunitari, altra cosa evidentemente per Laura Boldrini è onoraregli impegni verso di loro e rispettare con concreta correttezza i loro diritti. Se la immagino inginocchiata in Parlamento a fare la sceneggiata per il Black Lives Matter…
Non che con le donne italiane sue collaboratrici la Boldrini si comporti meglio. Selvaggia Lucarelli raccoglie il racconto di Roberta: “Ho lavorato due anni e mezzo con la Boldrini e posso dire che ho tre figli, partivo il martedì alle 4.30 da Lodi per Roma, lavoravo per tre giorni 12 ore al giorno, dalla mattina presto alle nove di sera. Per il resto lavoravo da casa, vacanze comprese. Guadagnavo 1.200/1.300 euro al mese, da questo stipendio dovevo togliere costi di alloggio e dei treni da Lodi”. In pratica, schiavismo a cottimo. Leggiamo ancora il racconto di Roberta: “Ero assunta come collaboratrice parlamentare e pagata quindi dalla politica per agevolare il lavoro di un parlamentare, ma il mio ruolo era anche pagare gli stipendi alla colf, andarle a ritirare le giacche dal sarto, prenotare il parrucchiere. Praticamente facevo anche il suo assistente personale, che è un altro lavoro e non dovuto. Dovevo comprarle trucchi o pantaloni. A maggio, finito il lockdown, ho chiesto di rimanere in smart working anche perché ho tre figli, di cui uno che si era ammalato seriamente che doveva essere operato. Di treni poi ce n’erano pochi e costosissimi. Lei mi ha risposto che durante il lockdown con lo smart working avevo risparmiato. A un certo punto parte del suo staff aveva pensato di fare una colletta per pagarmi i treni. Ho dato le dimissioni sfinita”. Alla fine di questa tremenda esperienza Roberta spiega perfettamente l’ipocrisia boldriniana: “Chiede di essere eletta perché dice che la sua politica tutela le donne e poi chi lavora con lei non si sente tutelata. Io mi sentivo senza più autostima, pensavo di essere capace solo di prenotare alberghi e fare fotocopie, ora faccio un lavoro che mi gratifica”.
Da un’altra collaboratrice di Laura Boldrini arriva poi la pennellata finale nell’articolo della Lucarelli: “Tutti i giorni Boldrini scrive post sui bonus baby-sitter o sui migranti in mare, poi però c’erano situazioni non belle in ufficio. O capricci assurdi. Se l’hotel che le veniva prenotato da noi era che so, rumoroso, in piena notte magari chiamava urlando. Poi magari non ti parlava per due giorni”. Una “padrona” ottocentesca, alla faccia dei diritti delle donne. Non mi piace mai personalizzare le critiche ma, avendo vissuto a lungo in intimità con il contesto della sinistra italiana fino a rappresentarla in Parlamento, posso testimoniare per quello che hanno visto i miei occhi la distanza evidente tra i principi proclamati e i privati comportamenti. Non a caso nella mia città che è Roma la sinistra vince ormai solo nei quartieri dei ricchi al centro storico, perdendo sistematicamente in tutti i quartieri popolari. Lo iato tra parole e fatti è ormai comunemente misurato. Le loro belle case con terrazzo e domestici li raccontano. E, diciamoci la verità, è come se la vedessimo Laura Boldrini urlare contro la “sottoposta” per l’albergo prenotato con stanza troppo rumorosa per la principessa sul pisello.
La collaboratrice domestica moldava, la mamma di tre figli sua dipendente, la vittima delle sue sfuriate in ufficio sono donne vessate da una donna che proclama a chiacchiere la lotta contro la vessazione delle donne. Ma, diciamoci la verità, questi racconti ci sorprendono? La loro ipocrisia è ormai totalmente esplicita, clamorosamente visibile. Tipo quella del Partito democratico che fa la lagna sulla parità di genere poi nomina tre ministri capicorrente e quindi maschi. Allora si dimette il segretario maschio e ne scelgono un altro, ovviamente maschio. Che appena nominato vuole fare il frocio col culo degli altri e allora prova a far saltare i capigruppo maschi, ma sapete che c’è, a quel punto i capigruppo dicono: ma che siamo noi i fessi della catena? “Fiducia rinnovata ad Andrea Marcucci presidente dei senatori dem”. Tutta una recita, cari lettori, priva di alcuna sostanza perché è solo lotta per potere e privilegi. A sinistra più che altrove.
Laura Boldrini ne è fulgido esempio. Non commendevole e neanche sorprendente. È quel che sapevamo già. Ora, semplicemente, raccontata dalle donne che hanno lavorato con lei. Extracomunitarie, mamme e “proletarie” tradite da chi solo a chiacchiere sa difenderle.