IL PEPE NEL CAPPUCCINO di Mario Adinolfi
Prima di declamare il Cantico dei Cantici davanti all’immensa platea televisiva del festival di Sanremo, il colto e sensibile Roberto Benigni ha voluto definirlo come un poema dell’erotismo che accomuna anche “l’amore tra un uomo e un uomo, tra una donna e una donna”, come fosse insomma un inno pansessualista utilizzabile ai gay pride. C’è chi ci ha scritto: “Quei due secondi di politicamente corretto non hanno rovinato la bellezza dei quindici minuti successivi”. Rispettosamente dissentiamo e proviamo a spiegare il perché.
Il politicamente corretto sciupa tutto, è come mettere pepe nel cappuccino, rovina con un pizzico di totalmente insensato qualcosa che è in sé perfetto e resiste da millenni proprio perché della moda corrente non solo ne fa a meno, ma la rifugge (quanto manca a Sanremo un Gaber che intoni “Quando è moda è moda”). Il Cantico dei Cantici è stato scritto tremila anni fa, se ci infili la tassa pagata al politically correct lo deturpi, cancelli il senso stesso per cui sei lì a declamarlo, lo vuoi piegare a canzone di Tiziano Ferro e invece è un’altra cosa. Quell’altra cosa è un patrimonio talmente splendente (e Benigni lo sa bene, per questo è grave la sua colpa, mica ce la siamo mai presa con Gabbani e gli altri che si mettevano i braccialetti arcobaleno a Sanremo sotto dibattito parlamentare sulla legge Cirinnà per apparire in linea con il pensiero dominante, quelli tengono famiglia, devono mettere in tavola la minestra e lo showbiz ti obbliga, ma Benigni no) che il bello è salvaguardarlo. Sarebbe come se qualcuno di noi avesse declamato il meraviglioso canto XV dell’Inferno dantesco dicendo che Dante ce l’aveva coi sodomiti e piegandolo al senso di una battaglia politica di parte legata magari a una campagna elettorale in corso. Quel meraviglioso affresco dantesco, l’immortale incontro con il maestro Brunetto Latini sotto la “pioggia di fuoco” che punisce chi è “contro natura”, sarebbe orrendamente deturpato dall’utilizzo piegato a battaglie dell’oggi.