LE 5 COSE DA CAPIRE SULLA CRISI di Mario Adinolfi

LE 5 COSE DA CAPIRE SULLA CRISI di Mario Adinolfi

Non c’è da discutere il se ma il quando. La crisi di governo è politicamente più che aperta, vedremo quando sarà aperta formalmente. Ovvio che se su un tema determinante riguardante il principale investimento infrastrutturale del Paese quando il presidente del Senato dà la parola al rappresentante del governo si alzano in due e danno due indicazioni opposte, solo il senso del ridicolo ormai travalicato in mille situazioni dalla coalizione gialloverde ha impedito all’aula di Palazzo Madama di chiuderla lì tra sonori sghignazzi. Conte doveva immediatamente salire al Quirinale e dare le dimissioni.
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NEL 1975 A BOLOGNA di Mario Adinolfi

NEL 1975 A BOLOGNA di Mario Adinolfi

L’11 aprile del 1975 il comitato centrale del Partito comunista italiano (Enrico Berlinguer, Giorgio Napolitano, Massimo D’Alema, Antonio Bassolino, Armando Cossutta ed altri) stilò uno storico comunicato a sostegno dei khmer rossi cambogiani, simbolo della resistenza contro gli Stati Uniti: “Ogni democratico, ogni comunista, sia, come sempre e più di sempre, al loro fianco”. A piazza Maggiore a Bologna il Pci organizzò una oceanica manifestazione e l’oratore principale fu proprio Massimo D’Alema, segretario nazionale della Fgci. L’Unità manda degli inviati in Cambogia a seguito della grande manifestazione di Bologna, per raccontare la “straordinaria rivoluzione comunista” dei khmer rossi. Quando i telegiornali Rai cominciano a trasmettere qualche brandello di verità raccontando gli orrori di Pol Pot e dei suoi pazzi seguaci (la cui narrazione più emotivamente trascinante resta il film “Urla nel silenzio” di quel Roland Joffè che due anni dopo sarà il regista di “Mission”) l’Unità titola in prima pagina: “I falsari della tv”. I telegiornali della Rai che dicono la verità vengono additati come “esibizione di parzialità e menzogna”.

Il documento del Pci e la manifestazione dalemiana dell’aprile 1975 a Bologna furono organizzati per celebrare la conquista da parte dei khmer rossi della capitale cambogiana, Phnom Penh, avvenuta il 10 marzo 1975. Qual era il cuore del messaggio rivoluzionario dei comunisti cambogiani, che tanto infiammava i cuori di quelli italiani? Un concetto semplice: tutto è dello Stato, niente appartiene alla persona. E quando i khmer rossi dicono tutto, intendono tutto. Lo Stato è tutto, la rivoluzione che lo incarna è tutto.

Il primo elemento da disarticolare per i khmer rossi è la famiglia: i bambini sono dello Stato. Le madri venivano immediatamente separate dai neonati, per legge. I figli venivano incoraggiati a denunciare i comportamenti “controrivoluzionari” dei genitori, determinandone la deportazione nei campi di lavoro forzato o direttamente l’eliminazione fisica. In appena quattro anni, tra il 1975 e il 1979, il comunismo di Pol Pot arrivò così ad eliminare due milioni di persone, un quarto dell’intera popolazione cambogiana. Vennero uccisi per primi tutti i monaci, gli “intellettuali” (bastava portare gli occhiali per essere considerati tali), gli artisti, poi anche gli ingegneri, i medici, tutti gli studenti. Il genocidio cambogiano è il più grave genocidio della storia umana per numero di morti rapportati alla popolazione colpita eppure nessuno dei manifestanti di Bologna dell’aprile 1975, nessuno dei firmatari del documento dell’11 aprile, nessuno dei giornalisti dell’Unità si è mai scusato.

Ieri è morto Nuon Chea, l’ormai 93enne numero due di Pol Pot, condannato per genocidio solo nel 2014. Con lui se ne va l’Himmler o il Goering di quel regime che fu peggio del nazismo. In Cambogia ora è premier Hun Sen, viene anche lui dalla militanza khmer, quindi ha vietato ogni ulteriore indagine sul periodo del genocidio cambogiano. Scrivo queste righe per far sapere a chi non sa, per non dimenticare, perché qualcuno si vergogni di quel 1975 a Bologna che ancora oggi non ha saputo rinnegare. E per quanto paradossale possa sembrare, Bibbiano non è lontana da Phnom Penh.

LA STRAGE DI BOLOGNA di Mario Adinolfi

LA STRAGE DI BOLOGNA di Mario Adinolfi

La mattina del 2 agosto 1980 una bomba piazzata nella sala d’aspetto della stazione centrale di Bologna è esplosa e ha causato 85 morti e 200 feriti. Secondo sentenza passata in giudicato a uccidere queste persone sono stati Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, condannati all’ergastolo, con Luigi Ciavardini condannato a trent’anni perché minorenne all’epoca dei fatti. I tre appartenevano ai Nuclei Armati Rivoluzionari, al terrorismo neofascista che si ritrova in varie forme dietro tutte le stragi della storia del terrorismo in Italia. La sentenza di colpevolezza è stata pronunciata a carico di Mambro e Fioravanti da innumerevoli collegi giudicanti in tutti i gradi di giudizio fino in Cassazione, l’associazione dei familiari delle vittime della strage che ha seguito con ovvia attenzione tutto l’infinito iter processuale si dichiara soddisfatta della sentenza che considera congrua, anche se non sono stati ancora evidenziati i mandanti dei tre Nar condannati. La Cassazione ha pronunciato sentenza definitiva di condanna all’ergastolo per Mambro e Fioravanti nel 1995, i due incomprensibilmente nel 1998 e nel 1999 hanno avuto subito accesso alla semilibertà e sono incomprensibilmente totalmente liberi da anni. Non si sono mai pentiti né dissociati, hanno complessivamente 17 ergastoli da scontare in due, due miliardi di euro da risarcire alle loro innumerevoli vittime che non risarciranno mai, ma sono liberi. Di più. Sono “entrati nel giro giusto”, lavorando con Emma Bonino e Sergio D’Elia per l’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino e oggi in molti affermano, senza reali prove a discarico, che Mambro e Fioravanti sono innocenti, non hanno causato la strage del 2 agosto 1980, il più grave atto criminale della storia italiana per il quale sono condannati in via definitiva e che lo Stato del Paese di Pulcinella ridicolmente condona con un’alzata di spalle.

C’è stato un momento in cui ho pensato che finalmente avremmo saputo la verità. E’ stato quando Gennaro Mokbel (che ora sta in carcere ed è chiaro come sia stato un punto di congiuzione eversione-riciclaggio-servizi-stato-bandadellamagliana) veniva intercettato decine di volte al telefono nel 2008 con gli stessi Fioravanti e Mambro (che gli propone addirittura i suoi parenti come tesserati per il suo movimento politico) e una volta lo stesso Mokblel dice al boss di Ostia Carmine Fasciani chiaramente: “Tirarli fuori dal carcere mi è costato un milione e duecentomila euro”. Leggendo quelle intercettazioni ho creduto che finalmente i giornali avrebbero finito con la loro campagna per trasformare i due peggiori assassini della storia italiana in due santi. Sarebbe finita la fioritura di libri giustificazionisti sulle azioni dei Nar (erano giovani, poverini). Sarebbe finita la commedia di Nessuno tocchi Caino e nessuno lo tocchi, per carità, ma deve per forza venire a darci lezioni di umanità? Si sarebbe finalmente vergognata Emma Bonino di aver chiamato due pluriergastolani neofascisti (e i rapporti con Mokbel provano che la radice politica non cambia) a collaborare ad una campagna per tutto il centrosinistra alle elezioni regionali in cui la Bonino stessa era candidata a presidente del Lazio.

Invece no. Persino il 2 giugno 2010, nel faticoso trentennale della strage più infame, i giornali hanno dovuto glorificare i sanguinari. Repubblica in quei giorni titolava: “Giusva Fioravanti incontra i parenti delle sue trentatré vittime”. Un titolo che è un’assoluzione implicita. Mambro e Fioravanti sono stati condannati all’ergastolo con sentenza passata in giudicato come esecutori della strage di Bologna: lo ripeterò mille volte, con sentenza passata in giudicato, hanno ucciso 85 persone e ne hanno ferite 200, alcune molto gravemente. Ma per Repubblica sono innocenti, le “vittime” di Fioravanti sono trentatré. Leggendo il testo si scopre che i familiari incontrati sono solo “quattro o cinque”. Ma Repubblica dedica la paginata sulla strage a loro, agli assassini redenti e liberi. Sì, perché sono liberi, completamente liberi. E redenti manco per niente, altrimenti non si mischierebbero ai Mokbel. Loro sognano il rientro alla ribalta, in politica. E riuscirà loro anche questo ennesimo scempio.

Io posso solo riportare le parole di Paolo Bolognesi a nome di tutte le vittime di Bologna, presidente dell’associazione che le riunisce, alla mesta celebrazione proprio di quel trentennale: “Ad eseguire materialmente la strage sono stati i neofascisti dei Nar Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, hanno scontato condanne pagate a prezzi di saldo: non esiste detenuto in Italia che abbia goduto di maggiori benefici. Abbiamo appreso con sconcerto la disinvoltura e la noncuranza dell’etica politica con cui Emma Bonino ha avuto come consulenti nel comitato elettorale Mambro e Fioravanti”. Bolognesi poi ha ricordato il ruolo del giudice Mario Amato, giovane magistrato trucidato su ordine di Mambro e Fioravanti quaranta giorni prima della strage di Bologna. Stava indagando sui legami tra Nar, servizi deviati e banda della Magliana, puntando “molto in alto”.

Il mio modo di ricordare sempre che i peggiori criminali della storia italiana sono liberi e oggetto di venerazione da parte della classe giornalistica italiana, è ricordare tutte le loro vittime, quelle di cui nessun giornale ha ricordato il nome, specie quei giornali impegnati nella celebrazione degli assassini Mambro e Fioravanti, fingendo persino che sia innocenti per la strage di Bologna. Va bene, diciamo che decine di giudici togati e popolari di tribunale, corte d’appello e di Cassazione si sono sbagliati, hanno tutti preso un abbaglio. Ma sapete quante altre persone sono state uccise da Mambro e Fioravanti, dalla folle attività terroristica dei Nuclei Armati Rivoluzionari? Sapete in che modo barbaro le hanno uccise?

Non sono un giustizialista, non proverei piacere nel vederli ai ceppi. Ma un po’ il mondo l’ho girato e mi rendo conto che una storia come questa possiamo raccontarla solo noi in Italia. Mettono una bomba nella sala d’aspetto di una stazione, uccidono nella maniera più vigliacca possibile una valanga di bambini, donne, anziani. Non in un grado di giudizio, non un solo giudice, ma una marea di giudici fino alla Cassazione indicano in Francesca Mambro e Giusva Fioravanti gli esecutori materiali della strage. Il 23 novembre 1995 la Repubblica italiana certifica con il terzo grado di giudizio la sentenza definitiva di colpevolezza, nel 1998 la Mambro è già in semilibertà, Fioravanti poverino deve aspettare il 1999. Lo sapevate? Ve l’hanno mai detto? Ve lo immaginate che possa accadere negli Stati Uniti d’America o in qualsiasi paese civile che i condannati per la strage più grave della storia di quel paese, a tre anni dalla sentenza definitiva possano camminare liberi per il centro della capitale? Il tutto, attenzione, senza mai aver collaborato con la giustizia, avendo mantenuto sempre orgogliosamente le bocche cucite e forse il premio è arrivato proprio per questo.

Alcuni dicono: non sono stati loro. La pubblicistica dei giornalisti amici, senza mai affermarlo direttamente, è riuscita però nell’operazione certificata di garantire la cancellazione della responsabilità: la stragrande maggioranza degli italiani non conosce nomi e cognomi degli esecutori della strage di Bologna. Sa dei depistaggi, un po’ a memoria e un po’ a caso parla di P2 e servizi segreti, ma i fatti per come sono stati giudizialmente ricostruiti non li conosce. Ma pur dando per buona l’operazione “diritto all’oblio” garantita dai Giovanni Bianconi del Corriere della Sera e dagli ex terroristi rossi come Sergio D’Elia, che hanno preso Mambro e Fioravanti a lavorare a Nessuno Tocchi Caino (e di Abele ‘sticazzi, è il sottotitolo), vorrei che sapeste che al di là della strage di Bologna quei due hanno sulle spalle 17 ergastoli per ulteriori atti criminali che qui sotto vado a riassumervi.

28 febbraio 1978. Giusva Fioravanti ed altri notano due ragazzi seduti su una panchina che dall’aspetto (capelli lunghi e giornali) identificano come appartenenti alla sinistra. Fioravanti scende dall’auto, si dirige verso il gruppetto e fa fuoco: Roberto Scialabba, 24 anni, cade a terra ferito e Fioravanti gli sale sulla schiena, gli punta la pistola alla nuca e lo finisce. Poi, si gira verso una ragazza che sta fuggendo urlando e le spara senza colpirla.

9 gennaio 1979. Fioravanti ed altre tre persone assaltano la sede romana di Radio città futura dove è in corso una trasmissione gestita da un gruppo femminista. I terroristi fanno stendere le donne presenti sul pavimento e danno fuoco ai locali. L’incendio divampa e le impiegate tentano di fuggire. Sono raggiunte da colpi di mitra e pistola. Quattro rimangono ferite, di cui due gravemente.

16 giugno 1979. Fioravanti guida l’assalto alla sezione comunista dell’Esquilino, a Roma. All’interno si stanno svolgendo due assemblee congiunte. Sono presenti più di 50 persone. La squadra terrorista lancia due bombe a mano, poi scarica alla cieca un caricatore di revolver. Si contano 25 feriti. Dario Pedretti, componente del commando, verrà redarguito da Fioravanti perché, nonostante il ricco armamentario “non c’era scappato il morto”. Che Fioravanti fosse colui che ha guidato il commando è accertato dalle testimonianze dei feriti e degli altri partecipanti all’azione, e da una sentenza passata in giudicato. Ciononostante, Fioravanti ha sempre negato questo suo pesante precedente stragista.

17 dicembre 1979. Fioravanti assieme ad altri vuole uccidere l’avvocato Giorgio Arcangeli, ritenuto responsabile della cattura di Pierluigi Concutelli, leader carismatico dell’eversione neofascista. Fioravanti non ha mai visto la vittima designata, ne conosce solo una sommaria descrizione. L’agguato viene teso sotto lo studio dell’avvocato, ma a perdere la vita è un inconsapevole geometra di 24 anni, Antonio Leandri, vittima di uno scambio di persona e colpevole di essersi voltato al grido “avvocato!” lanciato da Fioravanti.

6 febbraio 1980. Fioravanti uccide il poliziotto Maurizio Arnesano che ha solo 19 anni. Scopo dell’omicidio, impadronirsi del suo mitra M.12. Al sostituto procuratore di Roma, il 13 aprile 1981, Cristiano Fioravanti – fratello di Valerio – dichiarerà: “La mattina dell’omicidio Arnesano, Valerio mi disse che un poliziotto gli avrebbe dato un mitra; io, incredulo, chiesi a che prezzo ed egli mi rispose: “gratuitamente”; fece un sorriso ed io capii”.

23 giugno 1980. Su ordine di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, Gilberto Cavallini uccide a Roma il sostituto procuratore Mario Amato. Il magistrato, 36 anni, è appena uscito di casa; da due anni conduce le principali inchiesta sui movimenti eversivi di destra. Amato aveva annunciato che le sue indagini lo stavano portando “alla visione di una verità d’assieme, coinvolgente responsabilità ben più gravi di quelle stesse degli esecutori degli atti criminosi”. Mambro e Fioravanti la sera dell’omicidio festeggiano ad ostriche e champagne.

9 settembre 1980. Mambro e Fioravanti con Soderini e Cristiano Fioravanti, uccidono Francesco Mangiameli, dirigente di Terza Posizione in Sicilia e testimone scomodo in merito alla strage di Bologna.

5 febbraio 1981. Mambro e Fioravanti tendono un agguato a due carabinieri: Enea Codotto, 25 anni e Luigi Maronese, 23 anni. Dagli atti del processo è emerso che durante l’imboscata Fioravanti ha fatto finta di arrendersi. Poi ha gridato alla Mambro, nascosta dietro un’auto, “Spara, spara!”.

30 settembre 1981. Viene ucciso il ventitreenne Marco Pizzari, estremista di destra e intimo amico di Luigi Ciavardini, poiché ritenuto un “infame delatore”. Del commando omicida fa parte Mambro.

21 ottobre 1981. Alcuni Nar, tra cui Mambro, tendono un agguato, a Roma, al capitano della Digos Francesco Straullu e all’agente Ciriaco Di Roma. I due vengono massacrati. L’efferatezza del crimine è racchiusa nelle parole del medico legale: “La morte di Straullu è stata causata dallo sfracellamento del capo e del massiccio facciale con spappolamento dell’encefalo; quello di Di Roma per la ferita a carico del capo con frattura del cranio e lesioni al cervello”. Il capitano Straullu, 26 anni, aveva lavorato con grande impegno per smascherare i soldati dell’eversione nera. Nel 1981 ne aveva fatti arrestare 56. La mattina dell’agguato non aveva la solita auto blindata, in riparazione da due giorni.

5 marzo 1982. Durante una rapina a Roma, Mambro uccide Alessandro Caravillani, 17 anni. Il ragazzo stava recandosi a scuola e passava di lì per caso. Mambro sostiene che Caravillani sia stato ucciso da un proiettile di rimbalzo. Viene condannata come esecutrice dell’assassinio.

Bene, questi signori capaci di commettere questi atti raccapriccianti sono usciti dal carcere dal 1998-99, si avviano a festeggiare decenni di libertà e una vita ricostruita, si sono sposati e hanno avuto una figlia. Delle vite che hanno tolto non si sono mai detti pentiti, non hanno mai chiesto perdono, non hanno mai voluto incontrare un familiare delle vittime di Bologna magari anche solo per dire che non sono stati loro. Non hanno voluto perché i familiari delle vittime hanno seguito i processi e sanno che sono stati proprio loro. Una così infinita scia di sangue non ha avuto né verità né giustizia. Hanno vinto ancora una volta i prepotenti della lobby giusta, è il potere dei carnefici.

Negli scorsi anni si è discusso (poco, pochissimo, quasi per niente) delle dichiarazioni di Fioravanti rese in un documentario, rivolte contro il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime di Bologna, Paolo Bolognesi, che secondo il capo dei Nar avrebbe perso nella strage “solo la suocera e si sa che la suocera non è una vera perdita”. Una frase che sarebbe ignobile anche se detta da chiunque di noi al bar, figuriamoci se a dirla è in tutta libertà (perché Giusva, ricordiamolo, è libero) l’esecutore materiale della strage. Fioravanti è poi stato intervistato in diretta alla Zanzara su Radio24 da David Parenzo e Giuseppe Cruciani, che per questa intervista si sono beccati anche una denuncia all’Ordine dei giornalisti.

Mai denuncia fu più sbagliata perché i dieci minuti dello stragista alla Zanzara sono un documento decisivo. Grazie alla confidenza improvvida dei conduttori e al loro essere impreparati sull’argomento Bologna, Fioravanti inanella incontrastato una serie di frasi incredibili in cui non solo conferma il concetto della differenza di “peso” emotivo delle diverse vittime della strage (“perdere una suocera non è come perdere un figlio”), ma aggiunge capolavori di cinismo assoluto come quando precisa che la suocera di Paolo Bolognesi “non è affatto morta nella strage, è una delle persone rimaste ferite, morta molto tempo dopo”. E ancora dice Fioravanti: “Il predecessore di Bolognesi, Torquato Secci, ha perso un figlio. Chi ha vissuto lo sfracellamento di un figlio è autorizzato a dire delle cose senza ragionare, chi semplicemente qualche anno dopo la strage ha perso la suocera per i postumi delle ferite e per lo stress, non parla in nome di un dolore incontrollabile, ma è mosso dall’ideologia”.

Tenetele bene a mente queste frasi di Giusva Fioravanti, terrorista, condannato come esecutore materiale della strage di Bologna all’ergastolo. Non l’unico della sua carriera criminale. Tenetele a mente perché nessuno le ha riportate e durante l’intervista alla Zanzara nessuno le ha contestate. Il giorno dopo le edizioni cartacee di Repubblica e del Giornale non avevano neanche una riga sulla questione, il Corsera e Libero dedicavano un trafiletto neutro evitando di citare gli insulti di Fioravanti alla suocera di Paolo Bolognesi. Che si chiamava Vincenzina. Vincenzina Sala.

Aveva 50 anni. Vincenzina è la nonna di Marco, 6 anni, il figlio di Paolo Bolognesi. Nonna e nipotino il 2 agosto 1980 vanno alla stazione di Bologna ad accogliere Paolo e la moglie Daniela di ritorno da un viaggio in Svizzera. Quando scoppia la bomba entrambi vengono travolti dall’onda d’urto dell’esplosione. Marco è devastato, ricoverato in condizioni gravissime all’ospedale, riceve poche ore dopo la visita del presidente Pertini che ne esce sconvolto, in lacrime e davanti alle telecamere regala la sua umanità a un paese intero: «Ho appena visto due bambini che stanno morendo».
Uno dei due bambini è Marco, il padre Paolo lo riconoscerà solo per una voglia che ha sulla pancia. Sopravviverà, alla fine, grazie alla tenacia dei medici, portando per tutta la vita impressi addosso i segni evidenti della strage. Vincenzina viene cercata dai familiari per tutto il giorno, con la disperazione che cresce ora dopo ora. Non si trova negli ospedali, alle due del mattino in una sala marmorea dell’obitorio il marito ne riconoscerà il corpo privo di testa grazie alla doppia fede nuziale che porta al dito. La testa non sarà mai recuperata. Il nome di Vincenzina Sala è uno degli ottantacinque nomi delle vittime della strage di Bologna impressi sì su una lapide di marmo, ma per niente nella nostra mente.

Ho atteso anni sperando che qualcuno replicasse all’insulto alla memoria rivoltole dal terrorista libero Giusva Fioravanti. Non c’è stata neanche una riga, su nessun giornale, in nessuna cerimonia del 2 agosto a Bologna, mai. Nessuno che abbia trovato osceno che lo stragista dicesse “è morta per i postumi molto tempo dopo”, nessuno che abbia avuto la curiosità di controllare se fossero vere o meno le sue affermazioni.

Ma questo è un paese così, dove il terrorista è divo e libero, la vittima è nell’oblio e esposta pure al ludibrio del potere dei carnefici. E il giornalismo italiano? Riposi in pace, tanto c’è sempre una terrazza dove prendere l’aperitivo con Giusva e Francesca, che gli assassini si portano bene in società, come una borsa molto costosa.

Vincenzina Sala, 50 anni: madre, moglie e nonna. Morta decapitata alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980. Insultata dal terrorista condannato come esecutore materiale della strage, amico dei giornalisti che contano e da loro protetto, messo in libertà dopo pochissimi anni di carcere vero e pieno, senza che ci abbia raccontato la verità. Tutte cose che solo in questo incredibile paese senza memoria e senza rispetto possono accadere.

IL FOLLE MECCANISMO di Mario Adinolfi

IL FOLLE MECCANISMO di Mario Adinolfi

Giorgia Meloni s’era lanciata subito: “L’Italia non può essere il punto d’approdo di questi animali, bestie, spero che marciscano in galera”. A uccidere il povero carabiniere Mario è stato un turista americano di 19 anni con i capelli tinti di biondo, toccheranno a lui “i lavori forzati e la galera finché campa” promessa da Salvini. O forse no. Forse il folle meccanismo ha colpito ancora. L’ansia di spararla più grossa possibile in ogni fatto di cronaca, allontanando da sé ogni prudenza da classe dirigente, ma scegliendo il linguaggio della teppa istituzionalizzandolo, ha prodotto un effetto comico in un ambito che doveva essere solo tragico. Quegli altri ovviamente non vedevano l’ora di potersi sfogare per un delitto di droga finalmente non commesso da un magrebino, da un nigeriano, da un algerino e dunque ora daje con l’altra forma di propaganda ideologica, uguale e contraria, ugualmente comica e inadatta alla compostezza che dovrebbe avvolgere questa tragedia.

L’americanino che ha ucciso un nostro carabiniere non andrà ai lavori forzati, che peraltro in Italia non esistono, prenderà 16 anni per omicidio preterintenzionale, gli saranno ridotti in appello e alla prima occasione utile lascerà il nostro Paese per le pressioni che arriveranno dall’ambasciata di via Veneto. Mario non tornerà mai più dalla moglie appena sposata e oggi vinta dal dolore. Ma l’Italia si spaccherà in due fazioni: “tiè Salvini, è americano e adesso cosa dici?”; “sì ma il pusher è magrebino, ci sono sempre di mezzo loro, via questa feccia dall’Italia”. Bisognerebbe invece discutere della sicurezza con cui operano le nostre forze dell’ordine, di quanto poco paghiamo questi ragazzi che rischiano la vita, del fiume di droga che avvelena Roma e tutte le città senza che nessuno operi davvero un’azione di contrasto. Qui addirittura il pusher si sarebbe rivolto ai carabinieri per riavere il borsello e soprattutto il cellulare con il numero di tutti i suoi clienti: siamo al paradosso grottesco.

Il folle meccanismo però non ti fa mai discutere del problema in sé, non ti permette neanche di trasformare una tragedia in una porzione di bene, di onorare come si deve le vittime cercando strade che ne impediscano altre. Il folle meccanismo trasforma immediatamente tutto in linguaggio da stadio e puoi solo scegliere a quale curva appartenere: piddini-antipiddini, salviniani-antisalviniani, come una volta era berlusconiani-antiberlusconiani. Sul folle meccanismo avevo messo in guardia anche rispetto ai fatti di Bibbiano: se li trasformiamo in guerriglia ideologica contro il Pd, perdiamo l’occasione di dire tutti insieme che i bambini non si toccano e che quei pazzi della Hansel e Gretel che da un quarto di secolo creano ovunque scie di immenso dolore per i più piccoli e per le loro famiglie con le loro perizie che falsificano i fatti, devono smettere per sempre di operare in questo ambito.

L’ideologia, l’immediato scontro partitico, il linguaggio semplificato e abnorme da curva da stadio, fanno scattare il folle meccanismo: a quel punto devi solo appartenere. Stai con questo o con quello? E nello scontro parossistico tra questo e quello annega la possibilità di fare qualcosa di concreto. Lo abbiamo sperimentato anche sulla famiglia. Più i toni si sono alzati, più lo scontro è diventato contrapposizione violenta, più le promesse sono state roboanti, meno si è ottenuto nel concreto: manco uno straccio di proposta di legge a sostegno della natalità o per la famiglia, essì che si litigavano il decreto a tre giorni dalle elezioni. Ma il folle meccanismo è buono appunto per le elezioni, per attrarre consenso, non per fare concretamente le cose. Così l’unica proposta di legge arrivata davvero a Montecitorio per cambiare nei fatti la vita della famiglia italiana è stata quella del PdF sul reddito di maternità. Perché noi al folle meccanismo siamo immuni, noi rifiutiamo di metterci a fare casino in curva, noi siamo quelli che vogliono fare concretamente le cose senza urlare “dagli al magrebino” o “Salvini tiè, è americano”. Noi vogliamo azioni di contrasto vere contro le colonie del male dello spaccio di droga nelle città, lo diciamo da anni che l’esercito dovrebbe presidiare le aree a rischio. Non lasciare solo un povero carabiniere ad andare a morire ammazzato da un americano per recuperare la rubrica di un pusher.

O liberiamo l’Italia dalla morsa soffocante del folle meccanismo, torniamo come classe politica prima fra tutte a avere coscienza del ruolo anche pedagogico da svolgere, oppure alla radice concreta dei mali che ci affliggono sapremo opporre solo chiacchiere urlate. Che non risolveranno nulla, ci incattiviranno tutti, ci renderanno alla fine più deboli come italiani. Come popolo dobbiamo tornare a innamorarci della complessità da opporre alla semplificazione curvaiola, a cui noi come pidieffini (non senza pagare un prezzo salato) non ci siamo mai piegati. Noi non siamo tifosi che fanno i cori per quello o contro quell’altro. Noi teniamo il cervello acceso e ci becchiamo magari le bastonate dei tifosi di quello e anche di quell’altro. Ma è la nostra ragionevole e concreta forma di lotta, di resistenza al folle meccanismo.

IL PDF LA SOSTERRÀ  di Mario Adinolfi

IL PDF LA SOSTERRÀ di Mario Adinolfi

Leggete bene questo articolo di Repubblica come sempre raffazzonato, che parla di “vuoto normativo” quando non c’è nessun vuoto, aiuto al suicidio e eutanasia sono vietati dalle norme. Ma lunedì si va in aula con le leggi al riguardo. Leggete bene qual è la “lite” tra i due partiti di governo: M5S vuole legalizzare l’eutanasia, la Lega vuole “solo” depenalizzare l’aiuto al suicidio. Il Pd è pronto a fare asse con la Lega per spaccare il governo. Depenalizzare l’articolo 580 significa rendere l’Italia come la Svizzera e consentire che si possano “aiutare” a suicidarsi le ragazze come Noa, con medici che sicuri dell’impunità aiuteranno ad ammazzarsi anziché curare. Solo il PdF spiega da mesi che il punto è rivendicare subito in aula la validità dell’articolo 580 del codice penale. I 150 presunti membri del tanto strombazzato intergruppo parlamentare Vita e Famiglia intendono dire mezza parola al riguardo? I parlamentari cattoleghisti hanno ricevuto l’ordine di stare zitti e lasciare che la Corte Costituzionale tolga le castagna dal fuoco al loro imbarazzato e imbarazzante silenzio? Lunedì si va in aula a fare una sceneggiata, quando invece si potrebbe incidere. Una vera discussione parlamentare con la Lega schierata esplicitamente a difesa dell’articolo 580 renderebbe impossibile alla Corte Costituzionale proclamarne la depenalizzazione. Quando mi chiedete “cosa possiamo fare?”, fate quello che diciamo da mesi: gridate ora, dopo sarà inutile. E pretendete che la Lega per una volta, almeno una volta in questa legislatura, compia un atto politicamente degno dei rosari sbandierati. Se lo farà, il Popolo della Famiglia la sosterrà.

DOCUMENTO PER I PROSSIMI PASSI di Mario Adinolfi

DOCUMENTO PER I PROSSIMI PASSI di Mario Adinolfi

I circoli territoriali del Popolo della Famiglia stanno affrontando in questi giorni la fase post-elettorale che si definisce ovunque “analisi del voto”. Si riuniscono, discutono, elaborano. Segno di vitalità dopo il risultato del 26 maggio che è ovviamente insoddisfacente ma lascia comunque in campo un movimento capace di raccogliere un consenso a sei cifre, nelle condizioni di massima oggettiva difficoltà.

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