NEL 1975 A BOLOGNA di Mario Adinolfi

L’11 aprile del 1975 il comitato centrale del Partito comunista italiano (Enrico Berlinguer, Giorgio Napolitano, Massimo D’Alema, Antonio Bassolino, Armando Cossutta ed altri) stilò uno storico comunicato a sostegno dei khmer rossi cambogiani, simbolo della resistenza contro gli Stati Uniti: “Ogni democratico, ogni comunista, sia, come sempre e più di sempre, al loro fianco”. A piazza Maggiore a Bologna il Pci organizzò una oceanica manifestazione e l’oratore principale fu proprio Massimo D’Alema, segretario nazionale della Fgci. L’Unità manda degli inviati in Cambogia a seguito della grande manifestazione di Bologna, per raccontare la “straordinaria rivoluzione comunista” dei khmer rossi. Quando i telegiornali Rai cominciano a trasmettere qualche brandello di verità raccontando gli orrori di Pol Pot e dei suoi pazzi seguaci (la cui narrazione più emotivamente trascinante resta il film “Urla nel silenzio” di quel Roland Joffè che due anni dopo sarà il regista di “Mission”) l’Unità titola in prima pagina: “I falsari della tv”. I telegiornali della Rai che dicono la verità vengono additati come “esibizione di parzialità e menzogna”.

Il documento del Pci e la manifestazione dalemiana dell’aprile 1975 a Bologna furono organizzati per celebrare la conquista da parte dei khmer rossi della capitale cambogiana, Phnom Penh, avvenuta il 10 marzo 1975. Qual era il cuore del messaggio rivoluzionario dei comunisti cambogiani, che tanto infiammava i cuori di quelli italiani? Un concetto semplice: tutto è dello Stato, niente appartiene alla persona. E quando i khmer rossi dicono tutto, intendono tutto. Lo Stato è tutto, la rivoluzione che lo incarna è tutto.

Il primo elemento da disarticolare per i khmer rossi è la famiglia: i bambini sono dello Stato. Le madri venivano immediatamente separate dai neonati, per legge. I figli venivano incoraggiati a denunciare i comportamenti “controrivoluzionari” dei genitori, determinandone la deportazione nei campi di lavoro forzato o direttamente l’eliminazione fisica. In appena quattro anni, tra il 1975 e il 1979, il comunismo di Pol Pot arrivò così ad eliminare due milioni di persone, un quarto dell’intera popolazione cambogiana. Vennero uccisi per primi tutti i monaci, gli “intellettuali” (bastava portare gli occhiali per essere considerati tali), gli artisti, poi anche gli ingegneri, i medici, tutti gli studenti. Il genocidio cambogiano è il più grave genocidio della storia umana per numero di morti rapportati alla popolazione colpita eppure nessuno dei manifestanti di Bologna dell’aprile 1975, nessuno dei firmatari del documento dell’11 aprile, nessuno dei giornalisti dell’Unità si è mai scusato.

Ieri è morto Nuon Chea, l’ormai 93enne numero due di Pol Pot, condannato per genocidio solo nel 2014. Con lui se ne va l’Himmler o il Goering di quel regime che fu peggio del nazismo. In Cambogia ora è premier Hun Sen, viene anche lui dalla militanza khmer, quindi ha vietato ogni ulteriore indagine sul periodo del genocidio cambogiano. Scrivo queste righe per far sapere a chi non sa, per non dimenticare, perché qualcuno si vergogni di quel 1975 a Bologna che ancora oggi non ha saputo rinnegare. E per quanto paradossale possa sembrare, Bibbiano non è lontana da Phnom Penh.