Il Codice di Camaldoli

Prima della caduta del Fascismo nell’eremo di Camaldoli, il 18 luglio 1943, 50 intellettuali cattolici (tra cui Giorgio La Pira, Aldo Moro, Giulio Andreotti, ecc.) si ritrovano per provare a ridare respiro, dopo decenni di oppressione fascista, alla storia del cattolicesimo politico.
L’esito di quella riunione è il codice di Camaldoli, che indica nella famiglia il centro dell’azione dello Stato che vuole essere giusto.

 

PERCHE’ IL PDF RIPARTE DA CAMALDOLI

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Da oggi e per i numeri a seguire pubblicheremo su La Croce il testo integrale di uno scritto fondamentale intitolato “Per la comunità cristiana. Principii dell’ordinamento sociale a cura di un gruppo di studiosi amici di Camaldoli”, diventato storicamente noto come Codice di Camaldoli, della cui riunione originaria cade nei prossimi giorni il settantacinquesimo anniversario.

Per noi del Popolo della Famiglia questa rilettura è fondamentale, in vista della festa nazionale de La Croce che si terrà a settembre proprio all’eremo di Camaldoli ospiti dei monaci benedettini. Il PdF intende ripartire da Camaldoli, da quelle numerose proposizioni che all’inizio del codice lo incentrano sul ruolo della famiglia scrivendo, tra l’altro: “Nella concezione cristiana della famiglia, questa viene definita come istituzione naturale per la procreazione ed educazione della prole e come primo sussidio dato agli uomini per il perfezionamento del proprio essere”. Ma i cattolici italiani conoscono il Codice di Camaldoli? Lo hanno mai letto? Sanno quando è stato scritto? Hanno contezza di quanto sia stato fondamentale per la successiva scrittura della Costituzione italiana e per lo svilupparsi di un pensiero del cattolicesimo politico davvero egemone in quell’epoca? Probabilmente le risposte saranno molti “no”.

La radice profonda della crisi del cattolicesimo politico in Italia risiede nel fatto che in pochissimi ne studiano la grandezza, proprio tra i cattolici, in pochissimi sanno quanta pazienza c’è voluta per costruire davvero in un secolo una cattedrale, dall’appello ai Liberi e Forti di don Luigi Sturzo, passando proprio per il Codice di Camaldoli e arrivando fino ai giorni nostri, al Popolo della Famiglia appunto. Sarà bene allora ricapitolare alcune brevi informazioni storiche sul Codice di Camaldoli, prima di ritrovarci tutti insieme su all’eremo.

Tre quarti di secolo fa, in un tempo davvero davvero difficile e se leggete le date seriamente coraggioso, cioè dal 18 al 24 luglio 1943, un gruppo di intellettuali (laici e religiosi) cattolici si riunì, presso il monastero benedettino di Camaldoli, sotto la guida di mons. Adriano Bernareggi, assistente ecclesiastico dei laureati dell’Azione Cattolica, con l’intento di confrontarsi e riflettere sulla dottrina sociale della Chiesa e sui problemi della società, sui rapporti tra individuo e stato, tra bene comune e libertà individuale.

Il progetto era quello di elaborare un testo di cultura sociale che aggiornasse il Codice di Malines, primo tentativo di dottrina sociale cattolica organica e “politica” fatto dall’Unione internazionale di studi sociali di Malines, in Belgio, nel 1927 a partire appunto dai contributi emersi nella settimana del seminario, al quale partecipò attivamente anche il venerabile prossimo beato Giorgio La Pira, vero e proprio animatore della riunione nell’eremo toscano. Secondo Norberto Bobbio, la Rerum Novarum e la Quadragesimo Anno, insieme al Codice di Malines, costituiscono il nucleo centrale dei testi base del cattolicesimo politico.

Per la nascita della Democrazia cristiana, erede del Partito popolare italiano di don Luigi Sturzo, fondamentale è stata la conseguente elaborazione del Codice di Camaldoli. Basta leggere il testo per comprendere come sia “di rottura”, profondamente identitario, dunque capace di essere posto a radice del germogliare di un soggetto politico autonomo di chiara e non equivocabile ispirazione cristiana, esperienza anomala e innovative rispetto al panorama europeo e non solo.

Il 25 luglio 1943 e i successivi avvenimenti modificarono il piano di lavoro della riunione di Camaldoli, che prevedeva una ampia partecipazione; la stesura fu allora affidata a un nucleo ristretto di quindici persone guidate da Sergio Paronetto, Pasquale Saraceno, Ezio Vanoni, Giuseppe Capograssi, comprendente anche i giovanissimi Aldo Moro e Giulio Andreotti, che la completarono nel 1944; l’opera fu pubblicata nel 1944 e ha la seguente articolazione che necessita una nostra approfondita lettura per comprendere perché il PdF non può che ripartire da Camaldoli.

Enunciati

Vita civile

Origine della società civile

1. L’uomo è un essere essenzialmente socievole: le esigenze del suo spirito e i bisogni del suo corpo non possono essere soddisfatti che nella convivenza. Sennonché la convivenza familiare e la solidarietà dei gruppi intermedi sono insufficienti: perché l’essere umano abbia possibilità adeguate di vita e di sviluppo occorre che le famiglie si uniscano tra di loro a costituire la società civile. La quale perciò proviene direttamente dalla natura dell’uomo, remotamente da Dio che ha creato l’uomo socievole.
2. La società però non si può conservare ne sviluppare senza un principio cosciente e volitivo che ne precisi in concreto il fine e vi coordini le attività dei singoli: tale principio è la sovranità che si personifica nello Stato. Per cui lo Stato è pure una formazione dello spirito umano nel senso che mai sorgerebbe se l’uomo non fosse anche spirito, non è però una formazione arbitraria giacché l’uomo è determinante a trarlo all’esistenza da necessità imprescindibili di natura (S. Tomm. Politicorum I, 1).

Natura della società

3. La società non è una unità numerica o la semplice somma di individui che la compongono; è invece l’unione organica di uomini, famiglie e gruppi determinata dallo stesso fine, il bene comune e dall’effettiva convergenza delle volontà umane verso la sua attuazione, sotto la guida di un principio autoritario proprio.
4. La società organizzata a Stato non è neppure una unità naturale come sarebbe un organismo vivente; è invece una unità d’ordine: “unitas societatis civilis non est unitas naturalis sed ordinis” (S. Tomm. Eticorum I, 13); per cui i suoi componenti, gli esseri umani, conservano ciascuno una propria entitativa consistenza e rispettiva autonomia nell’operare.
5. La ragione per la quale l’uomo non può fungere soltanto da membro nell’organismo sociale è che egli, quale essere spirituale, è preordinato a un fine che trascende ogni umana istituzione, lo Stato compreso; e cioè preordinato a Dio: “homo non ordinatur ad communitatem politicam secundum se totum et secundum omnia sua.. sed totum quod homo est, et quod potest et habet ordinandum est ad Deum” (S. Tomm. I, II” XXI, 4, ad III). Per cui se risponde alla natura dell’uomo unirsi quale membro attivo nell’organismo sociale, risponde pure all’essenza della società non assorbire l’uomo fino ad annullarlo; ma la sua ragion d’essere sta nel creargli l’ambiente migliore per il suo perfezionamento integrale (Pio XI nella Mit brennender Sorge, 8).

Il fine e i doveri dello Stato

6. Fine dello Stato è la promozione del bene comune, cioè a cui possono partecipare tutti i cittadini in rispondenza alle loro attitudini e condizioni; bene che i singoli e le famiglie non sono in grado di attuare, giacché lo Stato non deve sostituirsi ai singoli e alle famiglie (Rer. Nov. 28); bene conforme alla natura dell’uomo, essere formato di corpo e di spirito e preordinato a Dio (Pio XI, Mit Brennender, 8).
Ma una direttiva generale (di giustizia sociale) deve essere sempre la protezione e l’elevazione delle classi meno dotate, salvi – ben inteso, i rapporti di giustizia distributiva e commutativa.
Nota: Bene comune = “quelle esterne condizioni le quali sono necessarie all’insieme dei cittadini per lo sviluppo della loro qualità e dei loro uffici, della loro vita materiale, intellettuale e religiosa, in quanto da un lato le forze e le energie della famiglia e di altri organismi, a cui spetta una naturale precedenza, non bastano, dall’altro la volontà salvifica di Dio non abbia determinato nella Chiesa un’alta universale società a servizio della persona umana e dell’attuazione dei suoi fini religiosi” (Mess. Nat. 1942, n. 102).
7. In concreto lo Stato deve riconoscere e rispettare i diritti inalienabili della persona umana, della famiglia, dei gruppi minori, degli altri Stati, della Chiesa.
a) Persona umana. “Origine e scopo essenziale della vita sociale vuoi essere la conservazione, lo sviluppo e il perfezionamento della persona umana, aiutandola ad attuare rettamente le norme e i valori della religione e della cultura, segnati dal Creatore a ciascun uomo e a tutta l’umanità, sia nel suo insieme sia nelle sue naturali ramificazioni” (Mess. Nat. 1942, n. 98).
b) Famiglia. Lo Stato organizzando giuridicamente la vita civile deve non solo rispettare la famiglia, ma darvi riconoscimento come parte fondamentale costitutiva di esso; assisterla nell’affermazione e nello sviluppo della propria unità economica giuridica morale e spirituale (Mess. Nat. 1942, n. 124); fare di essa il centro di molta parte delle sue funzioni culturali, assistenziali, ecc.
e) Gruppi minori. Lo Stato deve rispettare e promuovere entro i limiti fissati dal bene comune il formarsi di gruppi e comunità minori quali corpi con ordinamento autonomo dotati di propria personalità e funzione nell’ambito della società civile.
Nota: Quadr. Anno: “Le cose si trovano ridotte a tal punto che abbattuta e quasi estinta l’antica ricca forma di vita sociale, svoltasi un tempo mediante un complesso di associazioni diverse, restano ora di fronte quasi soli gli individui e lo Stato. Nello Stato vengono a ricadere i pesi che quelle distrutte corporazioni non possono più portare… Perciò è necessario che l’autorità suprema dello Stato rimetta ad associazioni minori e inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento, dalle quali essa del resto sarebbe più che mai distratta”.

Autorità e libertà

8. La sovranità statale proviene da Dio, il quale, creando l’uomo socievole, non può non volere che nella società vi siano gli indispensabili poteri sovrani; in ciò la ragione è confermata dalla Rivelazione: “Ogni uomo sia soggetto alle potestà superiori: perché non è potestà se non da Dio; e quelle che sono, sono da Dio ordinate” (S. Paolo, Rom, XII 1).
9. La sovranità statale non è illimitata; i suoi confini sono segnati dalla sua ragione di essere che è la promozione del bene comune. Oltre quei limiti, i suoi atti sono illegittimi e perciò privi di forza obbligatoria in ordine ai sudditi (Leone XIII, Sapientiae Christianae).
10. Derivando la sovranità da Dio, i sudditi sono tenuti a obbedire in coscienza ai poteri legittimi: “Per la qual cosa siate soggetti, come è necessario, non solo per timore dell’ira, ma anche per riguardo alla coscienza” (S. Paolo, Rom. XIII, 5). Ciò però non menoma la dignità personale del suddito, anzi la riafferma e la esalta, giacché ” obbedire a Dio è regnare”. In Dio pertanto la libertà genuina del suddito si concilia con la sovranità legittima del superiore e, nonché elidersi, l’una afferma l’altra.
11. Un’autorità la quale voglia provvedere direttamente a ciò che meglio può essere compiuto per opera individuale, familiare o di gruppi minori, usurpa compiti e diritti che non ha. Da ciò nasce il concetto e l’esigenza di una sana libertà, come autonomia in tutto ciò che promuove e non lede il bene comune.
12. Per alcuni diritti di libertà civica, in determinate circostanze, il bene comune può effettivamente richiedere limitazioni e rinunce.
13. Essendo il bene comune di persone, cioè di individui, di natura razionale ed essendo primi per esse i beni di natura spirituale, deve tenersi presente che condizione fondamentale per un perfezionamento intellettuale e morale è la possibilità di aderire spontaneamente alla verità e che merito morale v’è solo per l’azione coerente con la verità personalmente raggiunta. Le libertà delle coscienze sono quindi una esigenza da tutelare fino all’estremo limite della compatibilità col bene comune (enc. Non abbiamo bisogno. Pio, XI, 1931).
14. Qualora lo Stato emani una legge ingiusta, i sudditi non sono tenuti a obbedire, ma possono essere tenuti ad attuare quanto la legge dispone per motivi superiori. Se l’oggetto della legge è immorale, cioè lede la dignità umana o è in aperto confitto con la legge di Dio, ciascuno è obbligato in coscienza a non obbedire (Atti Ap. IV, 20).
La legge promulgata dall’autorità legittima si presume conforme a ragione.
(Puntata 1. – Continua)

 

CODICE DI CAMALDOLI: STATO E FAMIGLIA

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Su La Croce continuiamo a pubblicare il Codice di Camaldoli a puntate, in preparazione della festa nazionale del nostro quotidiano che terremo proprio nell’eremo dal 22 settembre prossimo. Dirigenti e militanti del Popolo della Famiglia hanno apprezzato la decisione di ripresentare il testo integrale del Codice in edizione critica e a puntate, spiegando quanto fondamentale sia per la storia del cattolicesimo politico questo documento, nato dall’incontro di intellettuali e religiosi avvenuto nel luglio 1943, giusto tre quarti di secolo fa. La Costituzione repubblicana deve moltissimo al Codice di Camaldoli e la sua riscoperta serve a tornare alle radici e alle ragioni di un tempo in cui un soggetto politico autonomo di ispirazione cristiana riusciva a essere sostanzialmente egemone, perché partiva da uno studio analitico delle esigenze del Paese, fornendo risposte chiarissime anche quando queste risposte dovevano essere necessariamente complesse.
La parte che pubblichiamo oggi in questa seconda puntata è quella centrale, relativa a due temi fondamentali: lo Stato e la famiglia. Appare chiaro che per noi del Popolo della Famiglia si tratta di una porzione del Codice di Camaldoli da studiare con attenzione e assorbire nella memoria.

Lo Stato

15. Lo Stato ha per fine il bene comune. Due funzioni specifiche sue sono: a) l’organizzazione e tutela del diritto;
b) intervento nella vita sociale.
16. Funzione giuridica. Lo stato deve anzitutto proteggere e garantire i diritti degli individui e delle collettività a lui sottoposte. La violazione di tali diritti ha una ripercussione profonda e nefasta sul bene comune di cui ha cura lo Stato; al contrario, il rispetto della giustizia e dei diritti che ne conseguono è il primo bene di tutti. “Affinché la vita sociale, quale è voluta da Dio, ottenga il suo scopo, è essenziale un ordinamento giuridico che le serva di esterno appoggio, di riparo e protezione; ordinamento la cui funzione non è dominare, ma servire, tendere a sviluppare e accrescere la vitalità della società nella ricca molteplicità dei suoi scopi, conducendo verso il loro perfezionamento tutte le singole energie in pacifico concorso e difendendole con mezzi appropriati e onesti, contro tutto ciò che è svantaggioso al loro pieno svolgimento. Un tale ordinamento, per garantire l’equilibrio, la sicurezza e l’armonia della società, ha anche il potere di coercizione contro coloro che solo per questa via possono essere trattenuti nella nobile disciplina della vita sociale; ma proprio nel giusto compimento di questo diritto un’autorità veramente degna di tal nome non sarà mai che non senta l’angosciosa responsabilità di fronte all’Eterno Giudice, al cui Tribunale ogni falsa sentenza e sopratutto ogni sconvolgimento delle norme da Dio volute riceverà la sua immancabile sanzione e condanna” (Mess. Nat. 1942).
17. “Il rapporto dell’uomo verso l’uomo, dell’individuo verso la società, verso l’autorità, verso i doveri civili, il rapporto della società e dell’autorità verso i singoli debbono essere posti sopra un chiaro fondamento giuridico e tutelati, al bisogno, dall’autorità giudiziaria. Ciò suppone: a) un tribunale e un giudice, che prendano le direttive da un diritto chiaramente formulato e circoscritto; b) chiare norme giuridiche, che non possano essere stravolte con abusivi richiami a un supposto sentimento popolare e con mere ragioni di utilità; c) riconoscimento del principio che anche lo Stato e i funzionari e le organizzazioni da esso dipendenti sono obbligati alla riparazione e al ritiro di misure lesive della libertà, della proprietà, dell’onore, dell’avanzamento e della salute dei singoli” (Mess. Nat. 1942).
18. Lo Stato ha il compito di promuovere positivamente il bene comune; di svolgere cioè in profondità e ampiezza, quanto lo esige la contingenza storica, una multiforme azione nei vari settori della vita per indirizzare le attività umane, avvivarle, armonizzarle, gerarchizzarle; sicché individui, famiglie e gruppi
intermedi trovino nell’ambiente sociale quanto necessario e conveniente per soddisfare ai bisogni del corpo e arricchire la propria spiritualità. (Rer. Nov. 26). Da ciò non deriva che spetti allo Stato di provvedere a tutto, dovendo tener conto dell’iniziativa privata in quanto strumento efficace per il bene comune.

Il campo politico

19. È compito politico costituzionale la creazione degli organi e la designazione delle persone cui in concreto spetti la cura del bene comune. Infatti se il principio dell’autorità viene da Dio, non comporta però la destinazione di esso a persone od organi determinati. Dio non determina il modo di designazione dei governanti e la forma della costituzione.
20. A tale fine, e nelle singole situazioni e condizioni storiche, si dovrà tendere a quella organizzazione politico-costituzionale la quale garantisce il miglior funzionamento delle autorità a servizio dei cittadini, col pieno rispetto dei diritti naturali. Entro questi limiti non si possono tuttavia precludere successive modifiche politico costituzionali, purché con le adeguate garanzie procedurali e sempreché siano effettivamente necessarie per una migliore organizzazione in mutate circostanze storiche, sempre legittimamente e, per quanto possibile, con la maggiore consapevolezza e consenso dei cittadini. Ciascuno è tenuto a sottostare alla autorità legittimamente costituita; solo per vie legittime gli è lecito adoperarsi per cambiarne le forme. Riconoscere ai singoli la facoltà di opporsi violentemente alle autorità costituite è gettare la società in uno stato di permanente disordine. La rivolta non può essere ammessa che in caso di tirannia insopportabile e di flagrante violazione dei più elementari diritti umani, esperito e riuscito vano ogni altro tentativo.
21. È di primissima importanza per il raggiungimento stesso del bene comune, che le decisioni prese abbiano la maggiore consapevolezza e quindi consenso dei cittadini. Ciò distingue i cittadini dai sudditi. È quindi giustificata l’esigenza di libertà e di organi rappresentativi di una pubblica opinione, i quali giungano anche a inserirsi nella struttura costituzionale dello Stato (Mess. Nat. 1942, n. 99).
22. Ognuno ha da considerare se stesso quale membro attivo nell’organismo politico. Essendo la società civile una comunione, ciascuno deve portare il contributo della propria attività all’azione dello Stato, esercitando con coscienza le funzioni politiche che gli appartengono.
23. Il cittadino è chiamato a dare il proprio contributo al bene comune anche con la propria attività privata. Nel perseguire il proprio interesse deve tener conto delle esigenze superiori del bene comune. Il conciliare gli interessi privati con quelli della comunità eleva l’attuazione di tali interessi a compimento di un dovere sociale.
24. Al diritto dello Stato di esigere i mezzi necessari alla sua vita secondo giustizia, corrisponde nel cittadino l’obbligo di contribuirvi.
25. I singoli sono tenuti a sacrificare se stessi anche fino a rimettervi la propria terrena esistenza, quando fosse necessario per il bene generale della comunità (II-II; 26, 3).
26. Il buon funzionamento della cosa pubblica e il rispetto delle stesse libertà civiche costituiscono la somma cura della “politica” ed esigono una formazione politica dei cittadini. Ne consegue la necessità di coltivare tale coscienza per stimolare l’attività e garantirne la competenza.
Chiesa e Stato
27. Chiesa e Stato hanno due fini diversi. La Chiesa rigenera gli uomini alla vita della Grazia nel tempo e li guida al pieno possesso di Dio nell’eternità; lo Stato mira a provvedere gli uomini di una sufficienza di beni terreni e coopera al progresso in ogni campo. Frequenti e necessario relazioni si hanno fra la Chiesa e lo Stato, perché, in un medesimo territorio, le due Società reggono gli stessi soggetti e l’attività dei due poteri si estende su certi oggetti comuni.
28. Lo Stato deve riconoscere la missione divina della Chiesa, acconsentirle piena libertà nel suo campo, regolare di comune accordo e lealmente le materie miste (quelle in cui gli interessi e i fini delle due società, Chiesa e Stato, sono impegnati e lo spirituale e il temporale sono indivisibilmente commisti, per esempio la materia del matrimonio e della proprietà ecclesiastica), informare la sua molteplice attività ai principi della morale cristiana.

Vita familiare

1. Nella concezione cristiana della famiglia, questa viene definita come istituzione naturale per la procreazione ed educazione della prole e come primo sussidio dato agli uomini per il perfezionamento del proprio essere.
In questa definizione si vogliono sottolineare:
a) la necessità della famiglia per il completamento naturale degli uomini;
b) fra procreazione ed educazione esiste un nesso naturale costituito da Dio, che impone alla famiglia la missione e quindi il diritto inalienabile all’educazione della prole (v. Casti connubi ed. Studium, pag. 168).
2. La famiglia ha come base e sorgente il matrimonio, e cioè: il matrimonio nel senso cristiano di unione giuridica e spirituale, perpetua, una e indissolubile per la procreazione e l’educazione della prole il mutuo aiuto e il rimedio alla concupiscenza.
Quindi:
a) soltanto nell’unione matrimoniale c’è il diritto alla procreazione della prole;
b) il divorzio come soluzione del vincolo è in ogni diritto inammissibile;
c) il matrimonio cristiano come Sacramento è soggetto all’esclusivo regime della Chiesa, salva la competenza dello Stato per effetti meramente civili di esso;
d) la distinzione fra figli legittimi e illegittimi non è una distinzione convenzionale, ma fondata nella natura delle cose.
3. La pienezza dei diritti familiari appartiene ai figli legittimi; gli illegittimi hanno certamente il diritto al nutrimento ed all’educazione conveniente a carico dei genitori.
Altri diritti, come: il nome, la successione ereditaria, il riconoscimento, ecc., possono essere oggetto di determinazioni da parte della legge, salvo il diritto dei legittimi e della società coniugale.
4. Nulla vieta la ricerca della paternità e della maternità da parte dei figli naturali, purché nell’esercizio di tale diritto non derivino danni individuali e sociali non proporzionati ai fini che la ricerca stessa si propone: come si verifica nel caso dei figli adulterini.
5. Essendo la famiglia una istituzione naturale anteriore a ogni altra società, ma non indipendente, il suo fine non può essere subordinato come mezzo ai fini di altre società, ma si deve armonizzare con i fini delle due società perfette alle quali per titoli diversi appartengono i figli: la Chiesa e lo Stato. Il padre è il capo
naturale della famiglia; la madre è associata a questa autorità, la esercita solidalmente col padre e può esercitarla in pieno in mancanza di padre.
“Se l’uomo infatti è il capo, la donna è il cuore; e come l’uno tiene il primato del governo, così l’altra può e deve attribuirsi come suo proprio il primato dell’amore. Quanto poi al grado e al modo di questa soggezione della moglie al marito, essa può essere varia secondo la varietà delle persone, dei luoghi e dei tempi; anzi se l’uomo viene meno al suo dovere, appartiene alla moglie supplirvi nella direziono della famiglia. Ma in nessun tempo e luogo è lecito sovvertire e ledere la struttura essenziale della famiglia stessa e la sua legge da Dio fermamente stabilita” (Casti connubii, ed. Studium, pag. 307).
Dunque:
a) la Chiesa come madre della vita soprannaturale ha il diritto di svilupparla nei cristiani secondo i precetti di Gesù e con i mezzi da Lui concessi;
b) lo Stato deve riconoscere la famiglia come è stata costituita da Dio; proteggerla contro tutti i suoi nemici, rimuovendo dall’ambiente pubblico quegli elementi di perversione che influiscono sfavorevolmente sulla gioventù e creando una atmosfera morale sana e conveniente al suo bene spirituale; aiutarla al compimento della sua missione; spingerla all’adempimento dei suoi doveri e, in caso di necessità, supplire alle sue deficienze e completare la sua opera nell’ordine civico.
6. “L’educazione consiste nella formazione dell’uomo, quale egli deve essere e come deve comportarsi in questa vita terrena per conseguire il fine sublime per il quale fu creato” (Div. ill. Mag., pagg. 260-61).
È quindi rivolta a tutte le facoltà umane, considerando l’uomo nello stato presente di provvidenza, non dimenticando ne il peccato originale ne la grazia ridonata all’uomo per la redenzione. L’educazione non può essere che educazione cristiana, perché solo questa si rivolge a tutto l’uomo nella totalità dei suoi doni naturali e soprannaturali.
7. L’istruzione consiste nell’insegnamento dei diversi rami della cultura e ha come scopo lo sviluppo dell’intelligenza e delle capacità artistiche e tecniche dell’uomo.
8. Data l’importanza essenziale che ha per ogni ordine sociale l’educazione e l’istruzione della gioventù, la scuola, che ne è l’organo normale, deve armonicamente dipendere dalla famiglia, dalla Chiesa e dallo Stato.
“L’educazione è opera necessariamente sociale, non solitaria. Ora tre sono le società necessarie, distinte e pur armonicamente congiunte da Dio, in seno alle quali nasce l’uomo: famiglia, Chiesa, Stato…
Per conseguenza l’educazione, la quale riguarda tutto l’uomo, individualmente e socialmente, nell’ordine della natura e in quello della grazia, appartiene a tutte e tre queste società necessarie, in misura proporzionata, corrispondente, secondo il presente ordine di provvidenza stabilito da Dio, alla coordinazione dei lori rispettivi fini” (Div. ill. Mag., pag. 262).
9. Famiglia e Chiesa hanno una missione essenzialmente educatrice. La Chiesa ha il diritto indipendente dallo Stato di stabilire scuole di ogni grado per l’educazione e l’istruzione dei suoi figli.
“Lo Stato, privo del titolo di paternità, ha nell’educazione una missione soltanto secondaria. Tuttavia può esigere e quindi procurare che tutti i cittadini abbiano la necessaria conoscenza dei loro doveri civili e nazionali e un certo grado di cultura intellettuale, morale e fisica, che, attese le condizioni dei tempi nostri, sia richiesto dal bene comune Tuttavia è chiaro che lo Stato deve rispettare i diritti nativi della Chiesa e della famiglia sull’educazione cristiana, oltreché osservare la giustizia distributiva. Pertanto è ingiusto e
illecito ogni monopolio scolastico che costringa fisicamente o moralmente le famiglie a frequentare le scuole dello Stato, contro gli obblighi della coscienza cristiana o anche contro le loro legittime preferenze” (Div. ill. Mag ).
Non è però proibito che lo Stato si riserbi, ove il bene comune lo richieda, l’istituzione e la direzione di scuole preparatorie “ad alcuni suoi dicasteri e segnalatamente alla milizia, purché abbia di non ledere i diritti della Chiesa e della famiglia in quello che loro spetta” (Div. ill. Mag., p. 274).
10. Date le esigenze dell’istruzione principalmente media e superiore, è compito dello Stato offrire scuole in numero sufficiente alle famiglie per la istruzione dei figli.
E molto conforme alla funzione dello Stato procurare l’accesso alle scuole medie e superiori ai figli delle famiglie economicamente meno dotate che dimostrino spiccate capacità intellettuali.
11. La famiglia e la Chiesa hanno diritto a creare delle organizzazioni religiose, culturali e ricreative per i figli, senza che lo Stato possa pretendere che tutti frequentino una certa associazione.
12. In un ordine sociale cristiano l’educazione, avendo come soggetto la persona umana, deve accordarsi colla natura e fine di essa:
Quindi:
a) ogni sistema educativo che ignora o viola tale natura e fine della persona umana, proponendo come fine esclusivo la formazione dell’uomo per se stesso e dell’uomo per qualunque collettività (classe, razza, nazione, Stato, umanità) è da rigettarsi come essenzialmente errato;
b) particolarmente da rigettarsi è il metodo della coeducazione fondato sulla confusione deplorevole di idee che scambiano la legittima convivenza umana con la promiscuità e uguaglianza livellatrice dei sessi;
c) nell’educazione della donna è particolarmente necessario tener conto della condizione speciale del suo sesso e della naturale sua missione di “cuore della famiglia”. Il che richiede l’istituzione di scuole ordinate a tale scopo e a esso esclusivamente destinate;
d) in materia di educazione sessuale, riprovata ogni istruzione collettiva e osservate tute le cautele che la prudenza cristiana suggerisce, appartiene alla cura personale e paterna propria della famiglia e della Chiesa dare quell’istruzione che si rende necessaria.
La scuola
13. Nella scuola intesa nel più vasto senso che include ogni funzione educativa, con determinato programma per una specifica finalità personale e sociale, tutti i fattori educativi sui affacciano con diritto conforme alla propria competenza.
La famiglia vi ha una competenza per quanto riguarda la finalità personale e l’integrità morale e religiosa del figlio; lo Stato vi ha una competenza per quanto riguarda il promovimento e la difesa del bene temporale comune; la Chiesa vi ha una competenza per l’insegnamento religioso e per tutto quanto abbia relazione con la religione e la morale.
14. È essenziale alla bontà della scuola e la suo migliore rendimento che tutti i fattori educativi vi cooperino armonicamente. L’educazione, fatto essenzialmente unitario anche se vi collaborano elementi diversi, in un popolo cristiano ha ispirazione religiosa in ogni suo momento; non è possibile affermare la pura laicità anche di aspetti particolari.
15. Nel quadro dei suoi obblighi religiosi e civici, appartiene alla famiglia l’avviamento scolastico e professionale del figlio. Essa ha il diritto di scegliere in proposito l’istituzione scolastica che le da maggior fiducia; ha il diritto di tutelare di fronte alla scuola le giuste esigenze personali, morali e religiose del figlio, e il dovere di accettare e secondare le finalità e la disciplina della scuola.
L’orientamento professionale appartiene alla famiglia con la cooperazione della scuola per la determinazione delle capacità effettive e delle reali inclinazioni del giovane a cui è giusto consentire.